Ralf Bönt, Berlino (D)

Nato nel 1963 a Lich, vive a Berlino
Formazione professionale: meccanico di automobili. Studio in Fisica, dottorato di ricerca. Consiglio direttivo dell’ufficio di letteratura di Monaco di Baviera.

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Videoritratto

 

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L’effetto fotografico

per Ellen Miller

 

All’inizio era il silenzio e l’agitazione e la domanda, perché un iceberg non affondi. Non mi meraviglia che l’abbiano usata così a lungo per risolvere l’enigma, sebbene già molto tempo prima pensassi che ora per loro era lo stesso. Ma ci si sbaglia fintantoché si anela e chi attende anela in maniera particolarmente scurrile. Per lungo tempo ho anche creduto che dovessi scoprire l’evento decisivo, per poter raccontare bene l’intera storia, quell’evento che ha portato la svolta sulla via della soluzione, e poi raccontare di quell’evento in maniera circolare, o a spirale, o a più voci e in forma contraddittoria, oppure senza quell’ordine. Ma non potevo decidermi per un preciso evento e ancor meno contro gli altri. Finché non mi accorsi che la storia non possedeva un’unica direzione, piuttosto era sottomessa agli eternamente mutanti desideri della quotidianità. Come tutto, come me.

Io sono l’agitazione.

In uno di quei giorni nei quali tutto sarebbe potuto accadere diversamente, molto diversamente, Amburgo, con i suoi centomila abitanti, era la più grande città tedesca. Molti tuttavia non la consideravano tra le città tedesche, perché, nonostante la ferrovia, aveva meno scambi con Berlino e Monaco che con Amsterdam e con la Londra che ospitava diversi milioni di uomini e che era la più grande città del mondo. Quando capita che piova a Londra e contemporaneamente nella Amburgo situata in direzione nord-est a settecentoventi chilometri di distanza, si può parlare di casualità, sebbene ciò accada più spesso di quanto non si creda. Parlo del 22 febbraio 1857. A Londra tirava un vento forte, quasi di tempesta.

In Alberarle Street c’era Sarah Faraday alla finestra ad osservare come le raffiche spazzassero via l’acqua, tracciavano disegni e scanalature sulle pozzanghere, per poi respingerle e tentarle di nuovo subito dopo. La finestra veniva scossa nell’intelaiatura. Con inutili rincorse la pioggia si lanciava contro il vetro, Michael Faraday sedeva accanto al camino.

Fissava il fuoco e non si chiedeva più come l’acqua, congelando, potesse produrre magicamente quelle figure regolari sul vetro della finestra, oppure perché il metallo molto freddo lasciasse sulla pelle ferite da scottatura. Tutto ciò lo aveva interessato quarant’anni prima. Ora stava sonnecchiando, forse stava rincorrendo un’idea che ancora una volta gli si presentava più veloce e sfuggente di lui. Forse stava cercando di addormentarsi e se gli fosse riuscito non ne sarebbe stato cosciente. Presumibilmente doveva starsene rilassato, doveva aspettare che arrivasse il sonno a prenderlo per dieci o venti minuti. E restare rilassato non era facile.

Faraday aveva sessantadue anni. A tredici anni, quando la luce, o almeno la luce inglese era fatta ancora di particelle che giungevano piuttosto velocemente e in modo rettilineo dal sole, volando, aveva lasciato la scuola. Consegnò giornali in abbonamento soggetti a forti imposte, poté imparare a fare il legatore e legando i libri poté leggere. Aveva sempre sognato una vita migliore. Credeva che sarebbe andata meglio quando si fosse saputo di più di lui. Alla fine fu lui, proprio lui e non i grandi eruditi d’Europa, non Humboldt, né Ampère, né Volta e neppure il suo grande mecenate Sir Humphry Davy a fare dell’elettricità e del magnetismo una cosa sola: l’elettromagnetismo.

E a lui era riuscito anche qualcosa di più ardito. Aveva dimostrato ciò che nessuno avrebbe ritenuto possibile: che la luce è magnetica. Di questo Faraday non aveva mai dubitato, al contrario, ne era sicuro: tutto era un’unica cosa.

Lui solo non era un’unica cosa. Gli mancava l’ultimo nesso, quello che avrebbe liberato anche me, il nesso di luce e corrente, e al numero 28 della amburghese Postrasse, che come accadeva spesso si trovava in un’area di bassa pressione Heinrich Hertz lottava nell’ambito della sua famiglia per l’aria. In questo non c’era nulla di strano. Solo un bambino su due sopravvive al parto, delle madri ne moriva una su cinque, su dieci, su venti, nessuno lo sapeva esattamente, in maniera imprecisa tuttavia ne erano coscienti tutti, compreso Gustav Hertz.

Alle spalle di Faraday, alla finestra, c’era Sarah.

Lei aveva imparato a concentrarsi sull’attimo. Avrebbe potuto mandare ora e per un’ora i bambini e il cane al Green Park. Ai bambini i capelli sarebbero volati attorno alle orecchie, avrebbero proteso le lingue per gustarsi la pioggia, le loro voci che chiamavano il cane si sarebbero disperse nel vento, l’abbaiare del cane sarebbe stato trasportato in tutte le direzioni. Al momento del rientro a casa lei si sarebbe fatta trovare pronta con un asciugamano ed avrebbe asciugato loro la testa già sull’ingresso. Loro si sarebbero tolti le scarpe, si sarebbero diretti in cucina schiamazzando, sul fuoco ci sarebbe stata una zuppa di patate con speck, il cui profumo, insieme al baccano, avrebbe riempito la cucina. Sarah sentiva le loro voci di giorno, ma anche di notte, voci, sempre.

Guardò verso la fredda cucina e abbassò lo sguardo. Non pensare ora, esigeva da se stessa, perché era esercitata anche nella disciplina. La mattina Michael aveva nominato, senza lamentarsi, l’acidità di stomaco ed aveva riferito quanto fosse fiacco, per questo s’erano decisi di non andare alla funzione dei sandmanier. Aveva timore delle due prediche di tre ore ciascuna e del lungo pranzo comune frammezzo, perché lì non avrebbe potuto distendersi in alcun luogo per fare un pisolino. Non poteva neppure ascoltare, negli ambienti chiusi la sua capacità di concentrazione durava meno di due minuti. Tuttavia lui e Sarah non mancarono neppure una volta, perché questo conduceva sempre ad un giorno silenzioso. Questo rendeva evidente il fatto che lui, il tempo, nonostante quello lavorasse contro di lui, lo lasciava trascorrere.

Così come Faraday se ne stava ora in poltrona, l’acidità di stomaco non era diminuita e gli era rimasto pure il mal di testa, ora pesante, ora martellante, ora una lama tagliente dalla vertebra del collo al bulbo oculare.

Rimasero il mal di denti ed il cattivo umore che abitava in lui come un vecchio amico vestito di nero che semplicemente non se ne voleva andare. Rimase l’irascibilità, che lui stesso odiava massimamente, della quale parlava poco quanto dei bambini che mancavano. Rimase il permanente capogiro che visto dall’alto andava sempre secondo il senso delle lancette ed il suo tempo cresceva in maniera continua e lenta, senza mai modificare la direzione.

Faraday si chiese quando fosse iniziato il capogiro. Vent’anni prima? Che cos’erano vent’anni? I figli sarebbero stati quantomeno un ragazzo e una ragazza, ma l’unico figlio di Sarah era Michael e suo figlio era il sapere, ed il sapere aveva iniziato ad abbandonarlo.

Si avvicinava mezzogiorno. Il medico della famiglia Hertz scherzava entrando e scuotendo il cappotto madido di pioggia, chiedendo se non si sarebbe dovuto attendere fino al giorno dopo, ma il padrone di casa entrò in quel momento nella hall, fece un cenno al suo servitore ringraziandolo, lasciando che si congedasse e mutò il commento del dottore.

“Prego”, disse Hertz secco, “di qua”.

Il dottore ubbidì.

Chiese se c’era l’ostetrica.

“Certo”.

Hertz era un uomo con un’ampia fronte, gli zigomi alti e gli occhi scuri. Quando aveva sette anni era stato battezzato insieme ai suoi genitori nella Thomaskirche di Lipsia e il suo nome era stato cambiato da David Gustav in Gustav Ferdinand. Successivamente suo padre aveva potuto acquistare per trenta marchi i diritti civili della città di Amburgo. Gustav Hertz aveva uno sguardo tranquillo e determinato ed era abituato a definire. Aprì la porta della camera di sua moglie Anna Elisabeth, che con i capelli bagnati dal sudore fu felice di vedere il “signor dottore”.

Le doglie, di cui Sarah Faraday non aveva mai smesso di sognare in alcuna costellazione del cielo, ad un ritmo di meno di due minuti l’una dall’altra ed ogni volta sottraevano ad Anna Hertz la coscienza.

Dal punto di vista puramente acustico il dottore lo si udiva a malapena quando sotto il copioso sciacquarsi delle mani diceva qualcosa come “molto tardi”, spiegando che quella situazione doveva durare un po’.

“Quanto?”

“Tre quarti d’ora.” La balia scambiò uno sguardo con il dottore, il quale, dopo aver pregato i padroni di casa di voltarsi, e prima di chiedere il “cloroformio”, ispezionò il canale di nascita, poi però disse alla balia: “Questo lo faccio io, preparate le pinze.”

Chiese acqua calda ed un panno fresco che nessuno avrebbe dovuto toccare.

Anna si contorse nuovamente emettendo suoni che mai si era sentito emettere da lei. Una serva portò una vaschetta di metallo piena d’acqua bollente, che reggeva con asciugamani. La pinza veniva immersa lì dentro. Gustav Hertz lasciò la camera senza gettare più lo sguardo sulla moglie e se ne andò a fumare su e giù per il corridoio, finché, a causa dei rumori che filtravano pressanti dalla porta, decise di sistemarsi in salotto a fissare il fuoco.

Le due ore che seguirono, nella quali Faraday rifletté su come una volta riuscì a scomporre in un prisma e a gettare su di una lastra di rame la luce del sole, la stessa di cui in quel momento prorompevano solo i resti molto dispersi filtranti la copertura nuvolosa ed il vetro della finestra, durarono un’eternità.

Sebbene la memoria di Faraday fosse non solo cattiva, e non per modo di dire, ma addirittura si trovava nello stadio del dissolvimento, e non potesse dire in quale anno o in quale decennio accadde, sapeva esattamente come allora avesse voluto trasformare per la prima volta la luce in corrente. Con il suo costante, estorto ritiro in un mondo che diventava sempre più piccolo, aveva scelto il suo lavoro come rifugio, che altro poteva essere.

Allora, era il 26 settembre 1828, ero in ansia come mai nella storia più recente dell’universo, perché Faraday aveva collegato la lastra di rame con un semplice galvanometro. Non accadde alcuna reazione. Neppure quando immerse la lastra in acido solforico diluito, oppure quando le gettò sopra l’intero spettro della luce solare. Gli esperimenti, scrisse Faraday nel diario di laboratorio, furono eseguiti in maniera molto grezza e forse lui, mentre Heinrich Hertz combatteva nel canale del parto per la propria giovane vita, nella sua logorante tensione aveva sperato nuovamente di ottenere l’intuizione risolutrice. Forse vi era vicino.

O forse no.

“Quanto tocca il cuore”, notò il chimico berlinese Alfred Stock negli anni Venti nel suo articolo sulla pericolosità del vapore di mercurio con il quale Faraday aveva lavorato quotidianamente, “leggere nelle lettere del grande ricercatore che lui deve recarsi e lamentarsi così spesso presso i suoi amici medici per il fatto che non riesce a memorizzare alcun nome, che perde i contatti con gli specialisti, che dimentica i propri lavori, i propri appunti, la sua corrispondenza, che non ricorda più come si debbano scrivere le parole.”

“L’organo contagiato”, aveva determinato ad un certo punto Faraday ed egli non avrebbe saputo quando fosse accaduto, ma Stock lo citò, “è la mia testa. La conseguenza è la perdita della memoria, la mancanza di chiarezza, i capogiri.” Stock sapeva per propria esperienza che cosa intendesse Faraday. Lo chiamò istupidimento.

Nel camino cricchiava della legna. Faraday dovette lasciar salire nell’esofago un ulteriore fiotto di corrosivo acido gastrico quasi fino alla gola, eternamente ferita dalle infezioni. Singhiozzando, Sarah lo vide avvinghiarsi senza proferir parola ai braccioli della sua poltrona, poi le mani li mollarono di nuovo.

Si chiese stranito che cosa gli avesse in fin dei conti consigliato il medico. Un toast secco, un po’ di brandy caldo con acqua? Oppure questo era contro l’eterna e languida fiacca? Chiese a Sarah del brandy, per lo meno avrebbe dilavato i dolori tra la mascella e la testa, come se fossero tracce d’artigli d’uccello o di vermi della sabbia nelle dolci onde che battono sulla spiaggia estiva di Dover, lì dove Sarah, dopo una lunga esitazione, gli avevo detto il suo sì.

“Andiamo a Brighton”, le sentì dire d’improvviso da dietro le spalle: “Hai bisogno di aria fresca”.

Lui aveva ragione. Anche lui aveva bisogno d’ossigeno. Non appena inspirò prese il veleno in grandi quantità e la costa era da tempo la sua unica salvifica riva. Spesso aveva potuto rilassarsi all’aria marina, vi aveva sviluppato idee, come quella che infine lo condusse all’induzione: spingere un magnete in una spola metallica non è una semplice trovata. Purtroppo, devo dire, Faraday era troppo preso da questo. Nel 1845, per esempio, guidò i raggi solari in un filo piegato a forma di helix. Una volta aveva provato frettolosamente con un cielo sgombero di nubi, un’altra volta, con più calma, con una luce contenuta. Naturalmente non vide alcun effetto. Un anno più tardi venne in possesso di un raffinato galvanometro. Una volta, un anno più tardi prese della luce artificiale, la convogliò, la polarizzò, l’accese e la spense in maniera sconnessa, anche questo in altri casi l’aveva portato ad effetti strani, dai quali lesse indicazioni che lo condussero all’obiettivo per vie irregolari. Spinse un vetro pesante nell’helix. Nel maggio 1848 ave preso una lamina d’argento, un filo di platino, che scaldò: nessun effetto. Di fatto continuò ad allontanarsi dal suo obiettivo. Solo con il primo tentativo si era avvicinato molto all’effetto fotografico.

“Partiamo domani”, stabilì Sarah.

Il brandy era stato accolto sulla lingua, per finire poi nella cavità orale ed essere inghiottito. Dilatò il suo calore nella testa e nel torace. E’ sorprendente come l’alcool raggiunga presto il cervello, e dopo che le due parole, luce e corrente, erano state spazzate via, il medico aveva salvato la vita al “bambino già mezzo morto” Heinrich Hertz. Gustav Hertz venne chiamato nella camera di sua moglie, dove vide il suo “figlio venuto al mondo raggrinzito e stropicciato” da dove, ancora richiesto, se ne uscì.

Respirai a pieni polmoni.

Già il giorno dopo sua madre voleva “tuttavia bene al suo Heins, voleva imparare e cercare con lui, perché lui doveva diventare un grande e valent’uomo e significare qualcosa”. Poi gettò uno sguardo fuori della finestra sulla baraonda che c’era in strada. Lì c’erano ancora in giro molte altre madri con i loro figli, le quali certo non desideravano nulla di diverso. Anna Hertz sospirò.

Ma Heinrich divenne un giovane bravo e ordinato, e come era d’uso nel suo ambiente, non portava nessuno sul palmo. Era un costruttore, disegnatore, modellista e falegname, si fece un tornio e trascorreva lì ogni minuto possibile. Il medico era dell’opinione che Heinrich dovesse diventare uno scultore. Un insegnante lo considerò un matematico e da giovane fece a Francoforte un apprendistato in ingegneria edile, se ne andò a Dresda dove aderì ad un eccitante sodalizio, i cui membri s’innaffiavano giornalmente le cicatrici di vino rosso per far crescere bellamente le ferite, costringendo suo padre a scrivergli una lettera con la quale gli vietava di aderirvi. Lui non presentò, come progettato, la lettera, per uscirne, perché il padre, in una seconda lettera spedita contemporaneamente, lo dissuase dal farlo.

Heinrich partì per Berlino, per il servizio militare, e se un giorno ammirava la disciplina, quello successivo detestava il tono del comando. Se ne andò a Monaco, dove voleva e doveva diventare ingegnere e dove infine trovò il suo amore. Solo che il professor di fisica, Philipp von Jolly, lo dissuase dallo studio della sua materia.

“Come?” chiese Hertz sorpreso.

“La teoria dell’elettrodinamica”, disse Philipp von Jolly, felice, orgoglioso e sogghignante, come aveva già detto due anni prima a Max Planck, “è il punto conclusivo della ricerca umana della legge di natura”.

“Come?” chiese Hertz sorpreso.

Ciò che Maxwell ha creato secondo le idee di Faraday, quella è la formula del mondo”, disse Philipp von Jolly, “non c’è più nulla da scoprire”.

“Come?” chiese Hertz sorpreso.

“Dal crollo dell’assurda teoria della luce corpuscolare”, il professore era pronto a spiegare al giovane dall’alto del suo scranno, “siamo al termine della ricerca naturale”. Questo sebbene quella della particella luminosa non sia stata una cattiva idea. Tuttavia era contento che ora il sole non perdesse alcuna massa e che le orbite dei pianeti restassero infine stabili.

Non lo si vuole credere, ma le opinioni, in definitiva, sono una questione di cuore. Gli uomini sono più suggestionabili dei cavalli ed una moda domina una qualsiasi epoca anche senza che uno sia concesso di vedere i tiranni. Senza sentire un qualsiasi problema logico interiore, gli uomini considerano un muro di prigione come una parete di difesa, essi credono che il proprio interesse sia il migliore per il bene comune, e invece di usare la testa, pendono dalle labbra di qualcuno, quando un uomo particolarmente solo e per questo incline alla computistica pesca la sua trota e suona la melodia a lei ispirata, dopo di che si dovrebbe tacere di tutto ciò di cui non si può parlare. Ciò indigna, ovviamente. Non solo perché già all’inizio c’era fin troppo silenzio e alla fine ce né ancor più, come se si possa sopportare o si possa accettare senza perdere la propria faccia, piuttosto perché si presta la sua attenzione in qualche modo esclusivamente agli enigmi. Non si può parlare di nient’altro. Ci si affatica a stimare molto la morale e s’invidiano i cinici. Si cerca di stare attaccati ad un cuore puro, e anch’io lo feci. Ma Heinrich Hertz era tutt’altro che una testa balzana. Da studente, e successivamente anche da professore, scriveva ogni settimana a “mamma e papà”, si faceva prestare continuamente denaro e riceveva ogni di permesso.

Aveva una cera terribilmente brutta.

Ma io l’avevo sottovalutato. Capii a poco a poco che le sue lettere al padre richiedenti assenso erano pure intimidazioni. Heinrich Hertz studiò fisica. Credeva di tanto che sarebbe stato meglio aver vissuto prima, prima del microscopio e del telescopio, quando c’era “ancora così tanto di nuovo”, dopo lo studio se ne tornò a Berlino, dove divenne assistente di Hermann von Helmholz e riconobbe come molta luce costituisse un’onda, quanto fosse breve la vita  e quanto lunga l’arte. Solo non intuì quanto maledettamente corta sarebbe stata la sua vita e quanto maledettamente lunga sarebbe stata la sua arte. Non ancora almeno.

S’innamorò della sperimentazione. Dal mercurio non rimase affascinato meno degli altri. Rifulgeva mirabile, anche nella semioscurità del laboratorio. Fluiva diversamente dagli altri fluidi, perché laddove c’è flusso normale forma delle sfere che rotolano via veloci e divertenti, sebbene le si possa comprimere con un dito, trasformandole in sfere più piccole. Amalgama altri metalli in viscosità le più curiose, con le quali si fanno le cose più assurde. E soprattutto trasmette la corrente in maniera affidabile e di buon grado attraverso gli angoli più astrusi. Quello era l’affare del giorno e la neurotossina è cointeressata spesso all’affare del giorno. I suoi avversari dicono che sia il grande, epico prestigiatore: pronto con un’incredibile disciplina a soddisfare qualsiasi tuo desiderio, con un colpo d’inconsapevole genialità il soccorritore naif e un buongustaio nell’uccidere.

Non so se una vita da raccontare necessita sempre di un’azione mirabile e di un errore centrale. A Faraday è stato diagnosticato nel corso della vita uun sovraccarico di lavoro e dopo la morte una nevrastenia con inclinazione isterica. Ed Heinrich Hertz fece il suo errore presumibilmente nel 1881, quando lui stesso si dedicò al mercurio. Einstein aveva due anni, Sarah Faraday, che sopravvisse dodici anni alla morte del marito, morì proprio quando Hertz vaporizzò qualsiasi quantità di quel metallo. Egli misurò la distribuzione della temperatura nel mercurio bollente, la superficie era di gran lunga più fredda quando più penetrava all’interno del fluido, impostò un’equazione per la sua tensione del vapore e lo fece salire sbiadito fino al naso, da dove, tra l’altro, strisciò lungo le vie olfattive per giungere direttamente al cervello, senza che avesse dato di sé il minimo cenno d’avviso.

Ci volle solo un anno finché lo stomaco e l’intestino si ribellarono. Ci volle un anno finché lui, educato così come aveva imparato, parlò di spiacevoli sensazioni. Finché lui iniziò a svegliarsi alle cinque del mattino senza più riuscire ad addormentarsi. Dico solo perché Heinrich Hertz non giunse fino alla vertigine e alla perdita della memoria e della concentrazione. Per questo l’epicureo s’addossa presumibilmente dieci anni, compresa la fase nella quale la vittima s’abbandona all’ignorare e al mentire. Circa dieci anni. Questo può variare. Dicono gli avversari.

In quell’anno Heinrich Hertz sarebbe potuto diventare il direttore della società d’illuminazione elettrica di Berlino, che era in fase di installaggio, come propose in maniera irritante il consigliere segreto von Helmholtz. La capitale aveva nuovamente acclamato se stessa, questa volta come elettropolis. Hertz tuttavia si era preposto di diventare docente a Kiel. Egli scompose concetti come massa, atomo, etere e onda, scrivendo cose epocali su tutto ciò, senza però pubblicare. Cercò di spiegare come si possa stare su di una lastra di ghiaccio senza che quella affondi. La sua spiegazione era ridicola: la lastra si ingobbirebbe fino a diventare come la carena di una barca. Si perdeva in amoreggiamenti, il massimo pericolo per quegli spiriti nei quali si ripone speranza. Divenne professore a Karlsruhe.

Lì cadde nel panico.

“Se non mi sposo entro un anno”, scrisse ai suoi genitori, “cadrò in uno stato di rabbia smodata”.

Un collega della stessa età conosceva un rimedio. Dieci giorni dopo Hertz si fidanzò con la figlia di un altro, più anziano collega. Ma il panico rimase. Quella sera stessa si prese la testa, camminò in forma circolare, s’afferrò il mento, dubitò, dopo tre giorni sciolse il fidanzamento e causò uno scandalo nella società di Karlsruhe. Per la donna non ci fu umiliazione, ma neppure per lui.

Nelle lettera ai genitori si lamentò, e devo dire che lo mollai quando dopo l’ultima lezione del semestre si diresse verso la Svizzera, scalò una montagna, “senza potersi fermare” e subito dopo se ne andò ad Amburgo. Dopo un giorno e mezzo di viaggio in treno incontrò lì la madre e la sorella. Proprio allora stavano partendo per Helgoland. Si aggregò a loro, e tuttavia soffriva “di una terribile inquietudine e agitazione”. Ritorno ad Amburgo. E lì: “il maggior male possibile, malinconia, apatia”. Seguì una cura in uno stabilimento idroterapico all’avanguardia per la cura della nevrastenia e prese un congedo per il semestre successivo. A questo proposito cito: “Insicurezza, infelicità, misantropia, disperazione, ipocondria, vergogna, maledizione”.

Heinrich Hertz trascorse un paio d’anni nel ribrezzo verso se stesso e il mondo, finché non trovò una nuova promessa sposa che illuminò nuovamente la sua vita. Sebbene ogni raggio si sole continuasse a saettare in camera la mattina come nessun’altra cosa al mondo ed era possibile vederlo solo dopo che incontrava un oggetto, per esempio un granello di polvere che danzava nell’aria, nessuno credeva più al fotone. Ma non importava, pensai, perché fino a poco tempo prima nessuno aveva creduto alle onde in quel settore, piuttosto solo a particelle, per secoli, anzi per millenni ha festeggiato solo lui: il fotone. Nel contesto acustico sono state protette sempre e solo le onde. A noi fononi non ha mai pensato nessuno. Fino ad oggi l’opinione pubblica non si è accorta di noi e il fotone, dopo un paio di cattivi decenni, venne subito riabilitato da Albert Einstein. Nel 1886, quando la ditta Einstein illuminò l’Oktoberfest con l’elettricità, Heinrich Hertz trovò casualmente ciò che Faraday aveva cercato invano: come si produce corrente per mezzo della luce. Se Faraday invece dell’acido solforico avesse preso il voltaggio elettrico, non si sarebbero certo dissuasi, Planck, Hertz e Einstein, dalla fisica. La storia sarebbe andata diversamente.  

 

(Traduzione: Vito Punzi)

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