Sudabeh Mohafez, Stuttgart (D)

Sudabeh Mohafez, nata a Teheran nel 1963, vive a Stoccarda. La Mohafez è stata proposta per il concorso da Klaus Nüchtern.

 

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Sudabeh Mohafez

Nel Mar Rosso

Più tardi saprò che prima del fuoco c'era stata un'esplosione, ma non conosco ancora questa parola, sento solo il rumore che la indica, che suona esattamente come il termine tecnico indica, cioè: suona come PUFF! Inequivocabilmente PUFF! Per questo mi sono svegliata.

E' un miracolo, dice il vigile del fuoco, il giovane con il graffio sul viso. Dice questo dice, lui. Che la mia sopravvivenza è un miracolo, e che avrebbe a che fare direttamente con l'esplosione, aggiunge. Perchè lei non l'avrebbe sentita, dunque non si sarebbe svegliata...e sento questi tre puntini con chiarezza, come era successo nella notte con quel PUFF!, cioè: perchè lui non vuol dire quella parola. Il giovane vigile del fuoco con il graffio sul viso non vuol dire „morto". Cioè che io ora sarei morta, dunque qualcosa di passato, un cadavere o il resto carbonizzato di un cadavere, se l'esplosione non mi avesse svegliata. Lui dice tutto questo, ma lo dirà solo tra un paio d'ore, quando dalla casa uscirà ormai solo fumo freddo e nero e un puzzo di carbone di legna ed agenti chimici, quando quattro delle cinque squadre antincendi si saranno ritirate, solo allora il vigile del fuoco con il graffio sul viso dirà quella frase con i puntini.

C'è ancora buio totale nell'appartamento, e anche fuori. C'è solo questo scrosciare e non faccio sogni, anzi, sono vispa come un fringuello e seguo quello scrosciare, corro verso quello strepitio. Ad ogni passo lo scrosciare diviene sempre più forte e si trasforma in soffio e strepitio provenienti dalla tromba delle scale.

Aprire la porta dell'appartamento. Brucia dall'esterno, questo significa che sta divampando una superficie di novanta per duecento centimetri perpendicolare al pavimento che ora, formando un angolo acuto, è rivolta verso l'interno del mio appartamento. La parete in legno di sinistra brucia, così come il pavimento davanti alla mia porta ed è un dato di fatto che io in questo momento rifletta. Pensò all'acqua, ad una coperta per il soffocamento. Penso al riparo. Ma appena ho chiuso la porta, sbattendola, una corona di luci. Lì, nello stipite dov'è fissata la porta dell'appartamento, di colpo lingue di fuoco. Crepitio. Torno nella camera da letto. C'è molto caldo. Il ficus accanto al letto sprizza scintille come fosse una candela magica. La parete in legno tra il letto e l'esterno è scomparsa. Mar rosso, no: bianco, giallo, rosso. Colori marini. E talvolta un guizzo bluastro, breve. Non ci sono pesci, nà gamberi, nè ricci di mare, solo un sibilo, come di serpenti. Il sibilo degli ultimi resti di umidità presenti nelle assi del pavimento. Poi scoppiano i vetri della cucina e del bagno.

Il mio appartamento brucia. Lo dico a bassa voce, con cura, in maniera assolutamente esatta: il mio appartamento brucia. Esco sul balcone, tiro la portafinestra dall'esterno, guardo all'interno, nell'appartamento, no: nei colori marini, cangianti, ed è un fatto: sto riflettendo anche davanti a questo spettacolo. Penso a cosa significhi questa frase. Che cosa significa: il mio appartamento sta bruciando, e cosa significa: il mio appartamento?

Sudabeh Mohafez (Foto ORF/Johannes Puch)

Arrivano i vigili del fuoco. A destra e a sinistra del balcone appoggiano alla parete una scala in alluminio. Vanno a prendere prima le persone che si torvano nel sottotetto. Hanno sporto di molto il tronco del loro corpo dalla finestra, cioè: sopra di loro s'alza ininterrottamente una colonna di fumo, di colore nero, sì, proprio così: una colonna di fumo nero verso l'esterno e la signora Naumann sale con le sue scarpe scollate sulla scala, sembra che il vigile del fuoco la stia abbracciando, ma lui si trova un paio di scalini sotto e stende le sue braccia attorno a lei, senza toccarla, come a formare un'ampia gabbia rotonda. La protegge. La protegge da una possibile caduta e rifletto per la seconda volta stanotte sulla protezione, pensando anche che io bacerei volentieri quel vigile del fuoco. E' un dato di fatto che io lo stia pensando sul serio. Bacerei volentieri quel vigile del fuoco, perchè lui allarga le sue braccia attorno alla signora Naumann, che è lì sulla scala con le sue scarpe scollate, gli sdruciti jeans tubolari, la sua permanente biondo platino e il panorak da passeggio per signora color rosso prugna e finalmente insieme a lui inizia a scendere la scala, con una propria andatura, e credo che devo cominciare a pensare un nuovo modo. L'amore è completamente diverso da ciò che ho creduto essere finora, cioè: da questo momento so esattamente come cis i sente quando si ama qualcuno. Cis i sente così. Così come mi sento quando guardando il vigile del fuoco con le sue braccia e la signora Naumann, in quel modo, proprio in quel modo, così che lei non possa cadere, proprio per questo, perchè lei abbia meno paura possibile, cioè: anche se si è in una situazione terribile, ci può essere qualcuno che tenti il possibile perchè insorga un po' meno paura, e questo è amore. Infatti non la innervosisce, non la trascina, non le grida per dirle: più veloce, più veloce!, e non le dice, ora si muova, perchè dobbiamo andare a prenderne altri due! Lui scende il piolo successivo solo quando l'ha fatto anche la signora Naumann, e sembra quasi che ballino, e mi chiedo se, appena arriverà da me, non sia il caso di chiedergli come si chiama, così più tardi potrò chiedegli se posso baciarlo, ma infine sento un cricchio nella portafinestra e sussurro per la seconda stanota Il mio appartamento brucia ed è un fatto che in quest'istante non sto già più pensando a che cosa significhi.

Poi uno spavento. Accanto c' è qualcuno che respira. Non è il vigile del fuoco che vorrei baciare. E' un altro. Mi indica una scala che poggia sul mio balcone. Sulla scala c'è un altro vigile del fuoco. Mi ritraggo dal mare, cioè: mi allontano dallo scricchiolio e dallo scoppiettio che è dietro il vetro, salgo sulla scala e scendo, il vigile del fuoco sulla scala mi tiene stretto il braccio e immagino che non sia un buon ballerino, come l'altro, quello che più tardi bacierò. La scala è finita. Sono a terra, su di un terreno di fanghiglia e di erba schiacciata. Il vigile del fuoco mi spinge poi verso un veicolo per il trasporto passeggeri, infine lascia il mio braccio ed io me ne sto ferma a guardare.

Alla mia sinistra l'edificio: si sta appiattendo, come qualcosa che stia sputando e soffocando, cioè: stia soffocando per il fumo, qualcosa che sia stato ucciso, quasi ucciso, perchè ancora tossisce, rantola ed una grande e rossa onda di vigili del fuoco sciaborda, e questo significa: ora ci sono due mari, uno che uccide ed uno che salva.

Sudabeh Mohafez (Foto ORF/Johannes Puch)

Il veicolo è uno spazio pieno di odori, merda, lenor, sonno, alcool, sebo e paura. Attraverso la sottile corsia passo accanto alle ginocchia di vicini di casa e mi siedo. Infine l'aria. Nella mia gola c'è di colpo aria simile a una colonna di solido granito, e Jessica, quella del primo piano, Jessica che ha cinque anni, dice: ho sete, e il signor Manteufel, quello del secondo piano, lancia sottovoce una bestemmia di fronte a sè, ed io subito soffoco, o schiatto, cioè: mi alzò di scatto, esco, respiro fuori quell'aria piena di fumo e mi fermo tra i nastri con strisce oblique bianche e rosse. Che si tratti di rosso lo so, non lo vedo, perchè è ancora notte, ma so che le strisce scure sono rosse. Nastri con strisce oblique bianche e rosse, nastri di sbarramento, e lì dietro ci sono gli uomini. Cinquanta? Forse sono diventati ottanta? L'edificio fuma ancora, ma ci sono sempre più uomini e luci blu in movimento, e tra loro zone buie. Ed una mano. E' posata sulla mia spalla, mi spinge in direzione del veicolo. Scuoto la testa. Lì dentro odora di lenor e di sonno, sussurro in direzione della mano, e sono qualcosa che si può far girare e spingere. Non pensi male, dico rivolta ancora alla mano dell'uomo. Chi pensarebbe male? Lei, dico e fanno un cenno verso di lui. Io? Toglie la mano. Sì, dico ancora. Io non penso mai male! Lo so, aggiungo. Di nuovo la mano, spinge. Io faccio opposizione. Sul serio, dovrebbe tornare nel veicolo. Sottraggo la mia spalla alla sua mano. Dov'è il vigile del fuoco? Chiedo. Io sono un vigile del fuoco. No, ribatto guardandomi intorno. Come no, dice lui ripoggiando la sua mano sulla mia spalla e facendo ancora pressione; mi sottraggo ancora una volta alla sua mano e guardo verso l'uomo che più tardi voglio baciare, ma non posso individuarlo tra i tanti uomini dotati della divisa di sicurezza e avrei dovuto chiedere il suo nome. Come si chiama? Domando. Per favore, ora torni nel veicolo, risponde lui. Mal ei come si chiama? Chiedo ancora. A che cosa le serve sapere come mi chiamo?, risponde mentre lo guardo, cioè: sono sorpresa dalla sua domanda intelligente. Non c'entra davvero nulla, dico annuendo. Non voglio baciare lei. Come prego? Dice, mentre mi allontano. Dove vuole andare? Continua. A respirare. Lei vuole respirare, dice. Annuisco ancora. Potrà respirare nel veicolo, aggiunge lui. Lo guardo. E' molto stupido. Vado di qua e di là, la mano scompare, e l'uomo scompare con lui, mi siedo su una bassa colonna al margine della superficie d'erba davanti all'edificio e respiro, poi, di colpo, lo vedo, mi rialzo, mi dirigo da quell aparte e quando m'immergo nel mare die salvatori, lì dov'è il vigile del fuoco che desidero baciare: me è scomparso di nuovo. Sono al centro di quel mare di vigili del fuoco e sono uno roccia sul quale sciaborda il mare, si apre, si richiude. Mi tuffo con lo sguardo, cioè: m'immergo nel mare solo con gli occhi, ma non lo trovo. Nessuno che mi tocchi, piuttosto mi girano al largo, a destra e a sinistra, dipende da dove vengono e dove sono diretti, sapendo dove andare, tutti con idrante, piccone e corda, e ognuno dice L'accompagno un po', se vuole. Forse di là? Indica la piccola colonna su cui mi ero seduta, indica solo, non spinge, non mi fa voltare, e la mia mano poggia sul suo braccio, accosto la mia testa al suo petto e lui dice: nulla, non dice nulla, piuttosto appoggia l'altro suo braccio attorno alle mie spalle, e siamo come uno roccia intorno al quale si frange il mare, e il mare si apre intorno a noi, a destra e a sinistra, nessun'altro ci tocca. Siamo uo roccia che si muove in mezzo al mare e sa esattamente dove deve andare, cioè: verso la piccola colonna al margine estremo del nastro con le strisce oblique bianche e rosse ed io non so proprio come ci si debba muovere quando si è uno roccia di quel tipo, ma possiamo farlo: siamo uno roccia che puoi riuscirci e così raggiungiamo la piccola colonna, ci sediamo di fronte ad essa, sul prato e: restiamo in silenzio.

Come si chiama? Chiedo dopo quel silenzio, lui risponde Gelling, Heinz Jürgen Gelling, io sorrido e dico Heinz-Jürgen Gelling, lei lo sa che siamo uno roccia? Prima ride, poi guarda serio e dice Qualche volta sono uno roccia, e qualche volta non lo sono. Poi guarda di lato, anch'io guardo di lato, cioè: due uomoni si stanno avvicinando a noi.

Sudabeh Mohafez (Foto ORF/Johannes Puch)

No, dico. I due osservano comprensivi, continuano ad osservare, riottosi. No, dico ancora. E' sgradevole, dice quello più basso con un bel paio di baffoni, ma è necessario. Là non ci vado, dico. Stiamo verificando se manca qualcosa, nel caso si sia trattato di un tentativo di furto. Io dico No, non è stato un tentativo di furto. Ero nell'appartamento finchè siete arrivati voi, lì non sarebbe potuto entrare nessuno, c'era il mare ovunque. Il mare, dice lui ed io annuisco. Il mar rosso ed il fumo. Il mar Rosso, aggiunge e Heinz-Jürgen Gelling dice Il fuoco, lei intende il fuoco. C'era fuoco dappertutto, intende questo, no?, domanda l'uomo, io annuisco, lui si gratta le tempie e si dirige con le dita sotto il suo casco protettivo. Come si chiama?, domando. Schulze, lo dicevo che si trattava del commissario capo Schulze, della Polizia Criminale, sezione incendi. Non c'è stato alcun tentativo di furto, signore Schulze, e non c'era alcun motivo perchè vi fosse, dico. Perchè non c'era motivo?, chiede il capocommissario Schulze, ed Heinz-Jürgen Gelling strabuzza gli occhi. Non c'è motivo per tornare nell'appartamento, dice. I capocommissario Schulze mi guarda. Sono una cocciuta che lui osserva paziente, con un velo di fatica nello sguardo. E' sempre difficile per le vittime, dice, in particolare per quelle che subiscono incendi, ma dobbiamo farlo. Sono una vittima di un incendio cocciuta e affaticata Heinz-Jürgen Gelling dice Vengo anch'io, se vuole, vi volto verso l'edificio, vedo le aperture delle finistre tossire e penso di non conoscore quel luogo, di non aver nulla a che fare con quel posto e rifletto su che cosa potrebbe accadere se davvero, solo perchè Heinz-Jürgen Gelling è disponibile ad accompagnarci, andassi lì, in quel luogo ignoto, in quella cavità che sputa fumo ed è intrisa di schiuma antincendio nella quale il commissario capo Schulze vuole trascinarmi, e sono una testarda ed affaticata vittima di un un incendio che deve rispondere al proprio compito, cioè: sopralluogo sulla scena del crimine.

Se vuole vango anch'io, dice ancora una volta Heinz-Jürgen Gelling e faccio un segno di consenso, perchè il modo in cui lo dice significa qualcosa, cioé: non andrai in un posto qualsiasi. Devo andare verso l'ignoto. Ma non devo penetrarlo da sola, Heinz-Jürgen Gelling mi accompagnerà, e rifletto su come si trasformi una roccia che debba muoversi quando c'è da dirigersi verso l'ignoto, e Heinz-Jürgen Gelling mi afferra la mano, non ride, piuttosto mi guarda negli occhi e credo che lui guardi in un modo rivelatore del fatto che a lui dispiace, che lui non vorrebbe costringermi a quell'azione. Ma talvolta, dice quel suo sguardo, bisogna andare verso l'ignoto.

Desidero, dice il commissario capo Schulze che lei si guardi attorno con cura e mi dica tutto ciò che le dà nell'occhio. Se manca qualcosa o se vede qualcosa che non le appartiene, prosegue, scomparendo nell'oscura cavità davanti a noi, e probabilmente combina qualcosa con i piedi, cioè: scricchioli provenienti dal pavimento nell'oscurità di quel vano. Suona come granulato invernale su vie piene di poltiglia, come granulato invernale spinto qua e là da pesanti scarpe. Heinz-Jürgen Gelling non si muove. Mi aspetta. Mi sono fermata e ho spinto un po' in avanti la testa, per guardare. Nella cavità. Nell'oscurità. Vengo anch'io, dice lui, ed io mi rivolgo alla mia gamba, invitandola a sollevarsi ed a fare un passo in avanti. Devi, le dico. Non andra in un posto qualsiasi, dico ancora alla mia gamba, e il mio ginocchio, la mia anca reagisce, la mia gamba fa un passo in avanti ed Heinz-Jürgen Gelling mi è accanto e lentamente entriamo insieme in quell'oscurità vuota, un cono di luce gialla vaga in quel paesaggio estraneo. Sono le mani del commissario capo Schulze a muoverlo. Nell'ignoto ci sono puntoni di balaustra simili a piccoli pini ammalati di color nero-marrone. Sono di diversa altezza e vengono illuminati per breve tempo da coni luminosi vaganti e da fari di ricerca, infine tornano nell'oscurità. Nell'ignoo il capo commissario Schulze si trava qualcosa che sembra essere il terzo o il quarto scalino di qualcosa che a sua volta sembra essere stata un tempo una scala. Nell'ignoto ci sono barre d'acciaio con fori rozzamente punzonati su ciò che rimane di quelli che una volta erano gradini, e noi dobbiamo: cioè: Heinz-Jürgen Gelling ed io dobbiamo oltrepassare quella barre e salire verso il primo piano dell'ignoto, e Heinz-Jürgen Gelling mi segue e mi dice Guardare avanti. Lei deve guardare verso il pianerottolo, ed io guardo avanti, grido, perchè di colpo la cinta del commissario capo Schulze mi è davanti al viso e la sua voce mi grida addosso Un casco! Tuona la voce del commissario capo Schulze, e la sua pancia, sotto la giacca aperta e al di sopra della cinta, sobbalza, due volte verso l'alto e due volte verso il basso. Un casco per la ragazza! Gelling, dov' la sua testa? Heinz-Jürgen Gelling mi spinge in avanti, verso il commissario, e un paio di metri davanti a me, per terra, ci sono un materasso, nero, carbonizzato. Tra quello e me una parete che non c'è più, accanto al materasso il cadavere di un libro, quello di una lampada, e la salma di un alberello. Sembra un ficus, dico ad Heinz-Jürgen Gelling e lui dice Sì, sembra un ficus. Qualcuno m'infila in testa un casco. E' giallo o bianco? Chiedo a Heinz-Jürgen Gelling. Arancione, dice lui, ride e aggiunge Le sta bene, ed io dico Grazie.

Sudabeh Mohafez (Foto ORF/Johannes Puch)

Per di qua, dice il commissario capo Schulze e noi lo seguiamo in un locale stretto. Il ripiano die fornelli è nero, il lavandino è nero. Una credenza bruciacchiata, vetri frantumati nel ripiano superiore, nera, ancora fumante. Di traverso davanti alla finestra un tavolo in legno, resti di sedie. Manca qualcosa, chiede il commissario capo Schulze. Manca qualcosa, sussurro io. Che cosa? Chiede. Manca qualcosa? No, dico. Bene, dice lui facendo un cenno di soddisfazione e precedendoci in quello che prima era un corridoio, lo seguiamo lentamente ma d'improvviso scompare, finchè non espone la testa dal successivo stipite di porta, ci dirigiamo verso di lui e stiamo per entrare nella stanza, ma io torno subito in quello che era un corridoio, perchè no voglio più vedere quello che ho visto e Heinz-Jürgen Gelling spinge il suo braccio sotto il mio, e Schulze!, dice, basta così! Non ce la fa, dice. Lo dice adagio, chiaro. Lo dice come lo direbbe un re. Lo dice anche come un bambino che osservi morire il proprio porcellino d'India.

Una goccia, dico, Sì, commenta Heinz-Jürgen Gelling, ed ora la sua voce è tornata ad essere la sua voce assolutamente normale. E' diventata acqua, dico, e Heinz-Jürgen Gelling ripete Sì. Tossisce, poi dice Succede quando le temperature sono molto elevate. Quello che dice suona logico. Suona come corrispondente alla realtà. Tutto a posto, dico, Heinz-Jürgen Gelling e il commissario capo Schulze mi guardano. Proseguo con voi, dico, e Heinz-Jürgen Gelling chiede Sicura? Ed io annuisco, mentre il commissiario capo Schulze dice D'accordo, come vuole! Ci lascia la precedenza ed io non guardo la parete di sinistra, osservo piuttosto la vasca, nera, poi il pavimento, anch'esso nero, cioè: vedo tre cadaveri, cioè: il cadavere di un asciugamano, quello di uno spazzolino da denti, quello di uno scendibagno, non mi soffermo neppure un attimo sul gigantesco sgocciolamento sulla tazza del wc, alla mia sinistra, il commissario capo chiede Manca qualcosa? Ed io rispondo No, e lui dice Bene, e nel prossimo vano non dobbiamo andare, semplicemente perchè non c'è. Ci sono solo quattro pareti, niente pavimento e niente soffitto, piuttosto, se si guarda in altro si vedono le travi del soffitto sopra l'appartamento della signora Pietsch. No, dico, e il commissario capo Schulze mi guarda con fare interrogativo. No?, dice. Sì, dico, No. Come sarebbe?, aggiunge lui. No, continuo, non manca nulla, e indico il vano dove non c'è più nulla, mentre Heinz-Jürgen Gelling sorride e il commissario capo Schulze fa un curioso rumore con la lingua o con i denti, ed io dico Ascolti, Heinz-Jürgen Gelling, si sta facendo mattina, volto la testa, cioè: un uccello canta e Heinz-Jürgen Gelling ascolta e sorride, infine proseguiamo ed arriviamo in un vano che esiste. In quella stanza che esiste c'è ciò che avevo già visto dalla scala, perchè non c'era la parete ad impedirmelo. C'è un materasso carbonizzato, ci sono il cadavere di un libro, quello di una lampada, infine la salma di un alberello. Heinz-Jürgen Gelling si china. Solleva una cartolina dal terreno. In quest'ignoto incrostato di schiuma antincendio e ricoperto di una pioggia di cenere ha trovato una cartolina integra e pulita. La prenda, dico, e Heinz-Jürgen Gelling tira la cerniera della sua giubbotto di sicurezza e se la infila lì, nell'oscuro calore del suo petto. Allora? chiede il commissario capo Schulze, No, rispondo. L'ispezione sul luogo del crimine è finita, passo dopo passo attraversiamo l'ignoto, usciamo, torniamo verso la piccola colonna.

E' un miracolo, dice Heinz-Jürgen Gelling, ed io noto solo ora il graffio sul suo viso. Dev'esserci stata un'esplosione, dice, ed io annuisco mentre lo dice, cioè: mi ricordo di quel rumore. La parete tra il letto e il corridoio in era solo una vecchia porta tappezzata, dice lui, ed io annuisco nuovamente. Dev'essere andata a fuoco subito e con lo sviluppo del fumo, dunque senza l'esplosione, dice, lei non avrebbe sentito nulla, non si sarebbe svegliata...E sento chiaramente quei tre puntini così come due ore prima avevo sentito quel PUFF!, cioè: perchè lui preferisce non dire quella parola. Heinz-Jürgen Gelling non vuol dire „morta", mai o voglio dirla, la dico. Se non mi fossi svegliata, dico, ora sarei morta, sarebbe tutto finito, sarei un cadavere, o il resto carbonizzato di un cadavere, Heinz-Jürgen Gelling mi guarda negli occhi e: resta in silenzio.

Sudabeh Mohafez (Foto ORF/Johannes Puch)

Forse sono stata io ad attrarre in qualche modo la fatalità, dico io mentre lui tace, ma di colpo mi guarda in modo che mi costringe al silenzio. Questo non è un pensiero utile, dice. E' una grossa stupidaggine, dice, ma è costretto a smettere di guardarmi in quel modo. Perchè io non parlo più di attrazione della fatalità, piuttosto di qualcosa di completamente diverso. La goccia, dico, prima era uno scaldacqua istantaneo, Heinz-Jürgen Gelling trattiene il respiro. Poi libera di nuovo l'aria con un lungo sbuffo, fa un cenno e dice, cioè: come se avesse dormito, forse sognato, e solo in quel momento si fosse risvegliato, e non più stizzito, con una voce di quel tipo cie Certo, uno scaldacqua istantaneo, tira fuori la cartolina e ne osserva il girasole. Talvolta, dice, nella distruzione più totale si trova qualcosa che è rimasto intatto. Integro, aggiunge. Forse non è integra, dico, ed Heinz-Jürgen Gelling guarda sorpreso e tiene la cartolina sollevata. Non c'è neppure un granello di polvere, nulla, dice. I girasoli sono gialli, dico io, quello lì sopra ha perso il suo colore. E' una foto in bianconero, dice Heinz-Jürgen Gelling. Ma forse non è stata sempre una cartolina in bianconero, ribatto, mentre lui sta facendo sparire la cartolina nella sua giacca, sospira, si alza, e dice Venga.

Il veicolo è vuoto. Aspettiamo dentro, aggiunge Heinz-Jürgen Gelling. Lascia la porta aperta così che io possa respirare meglio. Ora lei deve trovare un riparo, da qualche parte, dice. Ci sono due possibilità. Può fornire alla polizia un indirizzo, così loro la porteranno lì. Tace e si mette a giochicchiare con un filo che penzola dal bordo della sua giubba di sicurezza. Aspetto di sapere la seconda possibilità, ma Heinz-Jürgen Gelling continua a tacere. Oppure? Chiedo infine. Sì, prosegue Heinz-Jürgen Gelling, dunque...e si raschia la gola. Nel caso non possa fornire alcun indirizzo, dice, dopo essersi finalmente schiarito la voce, senza guardarmi e gettando lo sguardo piuttosto sul pavimento in metallo del veicolo, allora la polizia la accompagnerà nella residedenza per i senza tetto più vicina. Residenza per i senza tetto, dico sottovoce e molto accuratamente, e in questo momento credo che la mia voce esprima meraviglia. Io non voglio andare lì, dico. Sono in pochi a volerlo, dice lui annotando l'indirizzo che gli sto indicando.

Devo andare, dice Heinz-Jürgen Gelling. Dove?, chiedo, Fine del turno, risponde. L'intervento è finito, prosegue. Lei è in servizio, ribatto, e lui Io sono un vigile del fuoco. Sono qui perchè sono in servizio. Ed ora il servizio è finito, proseguo io, lui annuisce ed io mi chiedo che cosa significhi, cioè: io appartengo all'intervento di Heinz-Jürgen Gelling e per questo sono ciò che è l'intervento, cioè: finito, ed inclino la testa, perchè non so come ci si separi dopo che si è stati una roccia che poteva vagare, ed ora si è un vigile del fuoco che ha terminato il turno ed una vittima d'incendio che tra un paio di minuti verrà portata via.

Allora, dice Heinz-Jürgen Gelling, si raschia ancora la gola, indica i poliziotti davanti al veicolo e infine guarda in basso mentre mi porge la mano. Guardo la sua mano, l'afferro e la stringo cauta, lui la stringe con altrettanta prudenza e si alza. Le faccio tanti auguri, dice, si dirige verso la portiera del veicolo, salta giù, non si volta, al contrario: scompare, mentre io me ne resto seduta, respiro e guardo la mia mano; solo dopo, molto più tardi, mi renderò conto di aver dimenticato di baciarlo.


Tradotto da Vito Punzi
 
 

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