Nina Bußmann, D

Nata nel 1980 a Francoforte sul Meno, vive a Berlino. Studi di comparatistica e filosofia a Berlino e Varsavia. Pubblicazioni su antologie e riviste.

 

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Große Ferien

© 2011 Nina Bußmann

Traduzione: Vito Punzi

 

Vacanze estive

 

Non è possibile vedere come cresce l’erba. Spunta da un giorno all’altro. Su prati, su campi di macerie e pascoli i pionieri striscianti sgranchiscono le loro propaggini, steli di parecchi metri di lunghezza, distesi sul terreno. Mettono radici presso i nodi, attecchiscono ad ogni angolo che si prometta loro anche solo un po’. Le formiche continuano a trasportare i loro frutti. Attraverso la riserva boschiva sul pendio fin dentro l’insediamento, nelle siepi, nelle aiuole, nei prati spianati, fin nel pozzo dove non arriva mai il sole, davanti al portone del garage nel punto terminale basso della rampa d’accesso, nelle fenditure tra fresche pietre, dove la catena accanto alla grata di scarico s’attorciglia diventando un nido. Le radici della polentilla penetrano per un palmo di mano nelle giunture del lastricato. Alcune di esse di difendono usando il veleno contro la vegetazione indesiderata, molti ricorrono al becco del gas, a strumenti agili, uccidono precipitosamente il verde senza neppure doversi chinare. Tutto questo appare bello, bello e raffinato. Alla lunga non è efficace. Schramm raspava. Lui affondò il piccone nelle fenditure finché non giunse ad afferrare i fasci di radici, distendendo il piccone con piccoli movimenti ripetuti, usandolo come stuzzicadenti e come leva. Così lui poteva tirare via con le dita l’intera pianta fino ad afferrarla, perché più saldamente legata con un pezzo di filo di ferro ricurvo; da ultimo raschiava via dalle giunture la peluria delle radici tagliate via.

Lui aveva messo mano all’intera via d’accesso. Ci avrebbe messo almeno tre giorni, probabilmente di più. Andava da sé che ci sarebbero stati degli incomodi. E lui non era più il forte. Anche quando si lasciava prendere, quando lui non voleva più posare l’attrezzo e momentaneamente poteva credere che potesse riuscirgli tutto, proprio in quei momenti lui non poteva dimenticarsi. Già una volta aveva esagerato e questo non doveva riaccadere. Era troppo divertente. Aveva lavorato per trent’anni, senza perdere un solo giorno. Quello era stato solo l’inizio, scherzò sollevando il bicchiere in compagnia, in occasione di una piccola festa nella sala degli insegnanti: Non vi sbarazzerete così rapidamente di me, disse Schramm, Non ce la farebbe mica, lei, senza poter lavorare, sostenne un altro.

Ce n’erano sempre stati, altri come lui. Ma quando i colleghi poco prima di Natale e alla fine dell’anno scolastico si erano ritrovati dal greco per bere Schramm era stato presente. L’ultima volta s’era fermato fino alle ore del mattino, come tutto ciò che era intorno a lui era diventato più allegro, fino a vedere tutto doppio. Non perdi mai la bussola? chiese la referendaria appoggiando la testa sulla mano per poterlo vedere dal basso. Schramm colpì con la lama dell’attrezzo le pietre del lastricato, producendo scintille. Poteva essere contento di sé. Aveva terminato rapidamente la prima serie e la prima è quella più difficile. Era quasi arrivato alla piccola macchia di terra pianeggiante davanti alla scarpata erbosa, lì dove cresce la clematis, fece appassire le ombrelle di fallacia infeltrite nella sua cervice, girò gli steli attorno ai fili che Schramm aveva teso per loro.

La gestione di una classe non ha nulla di magico, disse lui alla referendaria, ed attorno a lui tornò ad esserci giudizio: Uno devo saperci fare, deve sapere dove si trova e quel’è il passo successivo da fare. I bambini sentono il puzzo di bruciato, colgono subito, attaccò lui, quando qualcuno non è certo di ciò che dice, quando non sa ciò che dovrà seguire, sai bene come ti chiamano, chiese nascondendo la propria bocca dietro il pugno, ammiccando verso di lui con un movimento delle corte e troppo truccate ciglia, che si sfaldarono in schegge di fuliggine sul lacrimale di lei. Tu sai come ti chiamano! Lui avrebbe dovuto chiedere a che cosa questo la facesse pensare. Quantomeno in nessuna delle sue ore di lezione s’era sentita una parola detta ad alta voce. E quando era successo qualcosa da parte sua aveva dato un taglio.

Non è vero che a qualcuno crolla il mondo in testa e precipita nel vuoto quando vengono meno i doveri abituali da un giorno all’altro; che si gattona da una stanza all’altra e non si sente come si inizia ad indirizzare la parola a se stessi, invecchiati, felici e grati, quando arriva la chiamata da una ditta per chiedere un’opinione, per fare una vendita. Non c’è bisogno di arrivare a tanto. I giorni devono avere un ritmo, un inizio e una fine e sempre la stessa forma, una forma che si possa afferrare con entrambe le mani. Questo non è noioso, è solo utile quando ci si deve concentrare su di un compito. Ed ogni cosa che vive possiede un proprio compito dal quale infine viene logorato. Quando Schramm comprava della birra nessuno doveva trarre la conclusione che quella birra fosse per le lumache. Di queste ce n’erano troppe. Lungo il confine del prato luccicavano le loro tracce, le loro punte tese ondeggianti lungo le punte dei fili d’erba, impigliate nei pori del cemento. Una volta, durante la sua infanzia, ne aveva trovate un intero agglomerato di forma sferica, in un angolo del giardino dove da piccolo passava volentieri tanto tempo dietro il dosso di terra realizzato dal padre durante un qualche suo lavoro. Trasudando bava, armeggiavano con il morto scarafaggio, strettamente accoccolate attorno alla sua corazza, solo le parti terminali delle loro corna risaltavano in quell’accumulo. Una protezione Schramm l’aveva costruita, con strati di bastoni e pietre molto serrati tra loro, con l’assunto certo che se lo si fosse riportato in casa gli animali sarebbero rimasti al loro posto almeno fino alla mattina successiva. Ma quelle di giorno si rintanavano e di notte mangiavano, cercavano e trovavano le piante più giovani e provocavano danni. Lui sparse linee di calce a difesa, quotidianamente piazzava nuove trappole. Doveva essere fredda, birra scura fresca, venivano attirati da questa e nella stessa birra affogavano.

Avrà i suoi motivi, si diceva a proposito di Schramm, lui lo sapeva, sapeva chi lo indicava passando, quando lui se ne stava accovacciato a lavorare, stando accovacciato o in ginocchio, ma lui non poteva preoccuparsi anche di come lo si guardava. Facile immaginare il perché susciti diffidenza il fatto che uno agisca con solerzia. Ancora una volta s’impone come esempio Waidschmidt. Di Waidschimdt si poteva dire ciò che si voleva, di certo non lo si doveva amare. Con tutta l’ascesi messa in mostra, lui era stato in tutto e per tutto un ragazzo viziato, calcolatore e incapace di un qualsiasi moto umano. Ma questo poteva dirlo solo chi lo conosceva, la stragrande maggioranza di lui non sapeva praticamente nulla. Venne a tal punto deriso e perfino accusato, della sua pedanteria, della sua esagerata solerzia si lamentarono perfino i suoi insegnanti; altrettanto forte fu il grido quando quasi da un giorno all’altro la solerzia si trasformò in rifiuto. Le persone non sopportano che qualcuno si comporti conseguentemente. Esagera, si diceva a proposito di Waidschmidt, esagera, si diceva a proposito di Schramm. Proprio a questo oggi Schramm non ama pensare. Nel tentativo di fermare un auto Waidschmidt era stato pizzicato, poco prima del termine fissato per gli ultimi esami, dopo il quale aveva camminato per giorni, senza dormire, senza mangiare, senza bere, aveva semplicemente camminato. Le sue dichiarazioni furono confuse, la sua condizione precaria. E quando venne portato in clinica si dichiarò d’accordo, dovette mostrarsi addirittura entusiasta.

 

Comunque, quando si spettegolò e si bisbigliò su Schramm, in faccia e alle spalle, a proposito di sua madre e di lui, di Waidschmidt e di lui, nulla di tutto questo corrispondeva neppure approssimativamente alle relazioni condizionate dall’intenzione e dal caso. Noi non sappiamo ciò che pensa l’altro. Non un pensiero più nuovo, neppure uno più difficile, solo uno più giusto. E nel parlare uno non cambia nulla, parlando due non si trasformano in un’unità, non possono essere così sicuri della loro unità, si illudono semplicemente di qualcosa. Waidschmidt aveva rimuginato abbastanza approfonditamente su queste cose nella sua dura cervice. Questo Schramm lo sapeva meglio di chiunque altro e tuttavia non capì tutto, non sapeva quanto fosse importante per lui il bolo di pelle e ossa, non sapeva se le sue parole grosse le dicesse così, solo per prova, se lui perseguiva una sua intenzione.

 

Con te ci saranno storie! Questo Schramm l’aveva saputo dall’inizio, molto presto, quando il piccolo si ritrovò come nuovo alunno in piedi davanti all’ottava classe. Con la sua cartella. Non passò neppure una settimana, questo fatto Schramm se lo ricordava bene, non lasciò passare il solito rinvio, prima di catturare il dileggio degli altri. Il loro disdegno e infine il loro odio. La sua sonnolenza affettata era sufficiente a non farli demordere; per l’arroganza c’era un fiuto delicato. E sarebbe sbagliato pensare, poiché negli affari di Schramm si trattava di cose naturali, che lui conoscesse solo i suoi calcoli, le sue carte della pioggia e le sue costruzioni sperimentali, le interazioni di materia ed energia. Per le complicanze nelle relazioni umane gli mancasse invece qualsiasi tipo di sensibilità. Era esattamente il contrario. Lui vide ciò che stava accadendo, lui sapeva che gli uomini si dividono in padrone e schiavo, amico e nemico. Ma era sbagliato immischiarsi negli affari dei bambini. Nel caso di Waidschmidt non era solo sbagliato, nel caso Wiadschmidt era del tutto inutile. Le larve, disse Waidschmidt, conducono un’esistenza da larve, mangiano ciò che viene offerto loro e ne vogliono esattamente e solo in quella misura, mai di più. Si ha bisogno tuttavia di un amico, dichiarò lui, altrimenti non si sa dove ci si trova.

Non aveva più di quattordici anni quando lui espose a Schramm questi pensieri, subito, quando l’aveva aspettato per la prima volta davanti all’aula delle carte geografiche, perché non era contento di un’argomentazione usata. Le punte delle dita rigirate verso l’esterno, la cartelle stretta al ventre, se ne stette in piedi lì. Ogni volta che Schramm pensava a Waideschmidt pensava alla cartella, quella in pelle color tabacco, quella carta già odiosamente grattata negli angoli. Per i libri necessari era impossibile trovare posto lì dentro, nulla al di là del blocco di fogli sottili, quello che Waidschmidt descrisse pagina dopo pagina nell’ultima serie, nel suo piccolo, acuto scritto. E sebbene in simili questioni le cose non si possono fare troppo facili, pensò Schramm, quella cartella esprimeva probabilmente tutto ciò che era necessario sapere del suo proprietario. Per Schramm non era giusto che lui avesse dovuto aspettarlo, ad ogni pausa lo aspettava nella stanza con il patrimonio di carte geografiche, per la cui sistemazione e salvaguardia Schramm era responsabile. Se lo avesse subito indirizzato verso i suoi armadi, pensò Schramm, questo sarebbe appartenuto al piccolo sentimento mai dominante, cattivo, presente sin dall’inizio. Ad ogni risposta di nuovo una domanda, ad ogni affermazione Waidschmidt aveva pronta un’obiezione, e ciò accadeva anche in questo caso, come in ogni dialogo che meriti questo nome e nel quale non è in gioco la prepotenza, piuttosto le questioni stesse, un dialogo che non può essere mai concluso, ma solo interrotto. Per questo motivo lui s’era lasciato coinvolgere e senza accortezza. Non aveva riflettuto sulle possibili motivazioni del ragazzo.

Quello delle vacanze estive era sempre un tempo critico. Fino a quando la madre era vissuta non era stato più facile, era stato ancora molto più complicato. A lei lui avrebbe potuto rendere la questione pietosamente comprensibile senza essere schernito e a ragione, pensò Schramm, a ragione la madre ammirava sinteticità e chiarezza. Kappes, chiamò lei, non appena subodorò che qualcuno non apprezzava le sue affermazioni e che il suo naso, per quanto concerneva quella storia, era raffinato. Kappes, e con ciò quanto detto per lei era distrutto, impresso nei mozziconi di sigaretta che si trovavano nel fondo del portacenere, classificati nelle scarne rubriche della sua testa. Bilanci di dare ed avere, un sistema semplice. Ancora quando lei era arrivata nell’istituto, e nel domandare era diventata più imprecisa, lui non poteva mai essere sicuro di ciò che la curvatura dell’angolo della sua bocca volesse indicargli, se lei metteva in dubbio la sua affermazione, la disapprovava o non coglieva più quando lui la teneva occupata nelle piccole questioni per trattarla con indulgenza. Oppure se non disponesse più lei, piuttosto il suo corpo come ultimo su quest’espressione, lo sfoderava per salvaguardare almeno una forma, anche se non bella, quando la sua ragione non era più legata a quanto detto da alcun contenuto.

Una volta la mano scivolata via, così per lei sarebbe stata fatta, ma questa non era una descrizione adeguata. Certo non era servito a nessuno che si fosse andati a tentoni negli eventi, oppure, come l’aveva definita la rettrice nelle sue ultime telefonate, nella faccenda. Si può cercare a lungo l’errore in una sequenza di operazioni di calcolo, quando si è partiti fin dall’inizio con dati sbagliati. Questo lui non lo farebbe più. I disturbatori giunsero presto quanto basta, arrivarono dall’esterno, e da soli. Al più tardi verso le nove e mezzo le accuse del bagnino della piscina nel bosco, collocata lungo il pendio, il gridare e lo schiamazzare dei bambini, quando si rincorrevano nelle vie poco trafficate dell’abitato. I tratti dei loro segni fatti col gesso arrivavano quasi fino alla rampa della sua via d’accesso. Li sentiva bisbigliare dietro le sue siepi, lui raccoglieva dai cespugli e dalle aiuole i loro giochi gettati per esuberanza e volati oltre la siepe. Ed una volta aveva anche cercato di parlare con loro con le buone: Guardate tutti qua! Gridò, piazzato al centro della strada a traffico limitato, la scatola con i reperti nella mano allungata. Ma nessuno si fece avanti, indirizzarono tutti lo sguardo solo verso di lui, come se fosse particolarmente difficile capire ciò che lui voleva da loro.

Non era corretto, questo ora Schramm l’aveva capito. Ancor di più quando Waidschmidt tornò da lui, una prima volta poco tempo dopo, poi un’altra volta. Certo lui dovette considerarlo le prime volte come qualcosa che ogni volta era unico, così che non voleva mandarlo via, ma successivamente non poteva più farlo, poiché si era trasformato in una regola. Ma quando presto cominciò a trascorrere da lui ogni sua pausa, comprese le ore del pomeriggio, questo non era il desiderio di Schramm, piuttosto accadeva su sprone di Waidschmidt. Lui non si lasciava mandare via, non con l’ammonimento che ci sarebbero stati pettegolezzi, e su questo Waidschmidt si limitò a sorridere. Il modo in cui lui rise, quando Schramm dovette rifiutargli infine il massimo dei voti a causa di errori apparentemente insignificanti, rise, quando lui, l’insegnante, non voleva derivargli una formula, perché per il momento era troppo difficile: Lei è un insegnante, Lei deve chiarire le questioni, non deve farne un mistero.

Lui parlò così e così doveva parlare. Anche alla fine, quando Schramm lo chiamò da lui perché non capiva più il suo comportamento. Nella stanzetta delle carte geografiche, che Schramm tra l’altro, per quanto permettesse un piacevole isolamento, non amava. Lì non c’era niente di meglio. Non posso aspettare, disse Waidschmidt, non posso aspettare di essere fuori di qui. Mio caro, tu ti arrampichi sugli specchi, disse Schramm, gli mise davanti alla faccia il foglio dell’ultimo compito in classe e gli mostrò gli errori, mai gravi e di rilievo solo nella loro somma. Appoggiato alla parete, Waidschmidt guardava il foglio che aveva davanti standosene comodo in piedi, come se ormai non ci fosse più nulla da fare, pensò Schramm: Dunque non arriva nulla dall’America, disse. E sentì il loro esultare, attraverso le finestre poté sentire rimbombare dal cortile a disposizione per la pausa, il loro urlare e gridare, il vuoto fracasso, quando una palla urtò contro la cancellata che si trovava dietro il montante, ed udì per la prima volta dalla bocca di Waidschmidt la parola noi.

Era accaduto poco prima degli esami, non diversamente da come avveniva ogni anno, quando i diciottenni, finché non rischiarava, bevevano standosene seduti sul prato accanto al laghetto, le intere e brevi notti, tra grappa e giuramenti, sull’erba umida e attorno a un fuoco, anche quelli che fino a pochi istanti prima neppure si guardavano in faccia s’affratellavano per la vita, e questo proprio poco prima di doversi separare per sempre gli uni dagli altri. Prima degli ultimi esami, quando Waidschmidt fu visto nelle vicinanze di certi gruppi. Lui fece questo con calma. Non si trattava di nulla di particolare, non era la prima volta, questo Schramm lo sapeva e tuttavia non se ne ricordava più.

Sciocchezze, disse Schramm quando pensò all’opuscolo. Era venuto fuori dall’arrotolata cartina delle correnti marine durante la lezione ed era caduto a terra. La ragazza della prima fila fissò la cartina nel supporto. Tutti gli altri se ne stavano a guardare, anche quelli delle ultime file osservarono la rivista ai piedi di Schramm, la foto nella quale si vedeva contemporaneamente troppo, due paia di braccia, cresciuti da un busto, in contorsioni accalcate, un corpo che copriva quello a lui vicino e lasciava giusto vedere l’uno sull’altro, così come fanno i cani. In quella foto nulla veniva mostrato per intero, ogni cosa si lasciava solo intuire, ed era questo, pensò Schramm, ciò che nell’insieme lo rendeva ancor più inopportuno, ancor più increscioso. Quei ragazzi che di lì a poco sarebbero diventati adulti e se ne stavano accovacciati nelle loro file, accovacciati e pronti a cogliere ciò che sarebbe accaduto. E la ragazza troppo alta che si trovava accanto alla cartina, alla cartina arrotolata che ancora vibrava nel supporto, se ne stava in piedi davanti alle frecce roteanti su fondo azzurro, se ne stava accanto al margine della cartina e non si muoveva. Solo le macchie dalla sua consumata scollatura prosperavano sopra la curvatura delle sue guance, fino all’insenatura della sua sporca scriminatura. Schramm prese a battere con un piede sull’opuscolo, gli diede un calcio, facendolo così svolazzare e allontanandolo di un passo: Che c’è, dobbiamo forse aspettare fino a domani? chiese, e tornò ad essere più calmo, mentre attendeva che lei si piegasse con i fianchi rigidi verso l’opuscolo e ripiegato lo portasse con sé al posto, prima che lui scrivesse un’intestazione sulla lavagne, iniziasse a parlare del tema della lezione.

Lui non sapeva che cosa avesse da trafficare Waidschmidt con quella cosa. Così come lui non sapeva, non saprebbe mai e poi mai, quello lo aveva denigrato o aveva fatto scena muta, che aveva fatto allusioni oppure che aveva negato tutto. Denigrato e poi aveva perso i nervi perché per metà aveva mentito. Schramm non giungerebbe più ad alcun risultato, neppure ad una attestazione per sé di quale delle possibilità gli sarebbe più dispiaciuta. E non poteva mettere il dito nel punto dov’erano iniziati i cambiamenti, che avevano prodotto in lui le prime preoccupazioni. Non soltanto quando Waidschmidt cominciò a fare i primi errori, proprio negli ultimi compiti scritti, non errori gravi, tuttavia autentici errori, di quelli che si fanno per negligenza. Una negligenza in verità ammessa con la massima intenzionalità, così come la conosce da quelli che vogliono mostrare, anche se solo per una volta, che non ne hanno bisogno. Per questo motivo lui, con quel suo modo di fare ottusamente insistente, si era cercato degli amici e infine una ragazza. Una come tante, pensò Schramm. La mattina lei sedeva al suo posto con i suoi cubetti di glucosio e con le matite appuntite, i capelli bagnati, pieni di nodosità, fissati verso l’alto, tanto che si poteva osservare come, asciugandosi, assumevano un colore più chiaro all’altezza della sua nuca. Quando lui si piegava accanto a lei per controllare i suoi conteggi poteva vedere le piccole piume scompigliate con la pettinatura, l’indistinta giunzione nella pallidamente scolorita peluria che cresceva sotto il colletto e proseguiva oltre. Errori non se li concedeva, ma proprio per questo era qualcosa di particolare? Che cosa aveva da discutere con una ragazza così uno come Waidschmidt, che cosa poteva, del resto, aver spinto uno come Waidschmidt a prescindere da un’esistenza per anni defilata, condotta con decisione. Che c’entra questo, domandò Waidschmidt, se posso chiedere?

Un tentativo, per Waidschmidt lei non poteva essere stato altro, un tentativo, così alla fine lo avrebbe chiamato lui stesso, pensò Schramm. Gambe lucide, sopracciglia nere, ancora dubbiosamente aggrottate sotto la visiera, quando lei nelle ore libere e dopo le lezioni s’allenava contro la propria volontà, lanciava di continuo la palla con impeto contro il muro esterno della palestra. Come si era adeguato agli altri, quanto rapidamente s’era aggregato a loro, ancor meglio: s’era gettato, pensò Schramm, aveva fatto il leccapiedi, era una vergogna)

Non gli era stato bene quanto il ragazzo avesse cercato la sua vicinanza, ma quando lui restò via quasi da un giorno all’altro a Schramm sembrò cosa altrettanto poco buona. E a nessuna delle sue domande chiarificatrici Waidschmidt diede una risposta, piuttosto le liquidò con modi di dire scialbi e con controdomande svianti. Parliamo di questo e quest’altro, capisce anche Lei che non si tratta di nulla d’importante. E a proposito dell’opuscolo, che cosa vuole che sia successo con quell’opuscolo, dove vuole andare a parare? Lei deve essere più preciso, reclamò lui, se devo sapere di che cosa stiamo parlando. Lei è l’insegnante, Lei le cose le deve chiarire, non le deve lasciare nell’incerto. Questo disse il giusto! Una schivata, pensò Schramm, una grande schivata ed uno sviamento al posto di una sola risposta utilizzabile, così che lui, l’unica volta, la volta che l’aveva pregato, che di nuovo voleva mandarlo via, perché non riuscì ad afferrarlo in nessun punto, certo ancora con la mano sulla porta, per metà districatosi Waidschmidt si voltò ancora una volta.

Come riesce a sopportare questo? chiesa Waidschmidt: Al Suo posto avrei perso da tempo la ragione. E tracciò un taglio richiusosi rapidamente attraverso i capelli diventati nuovamente lunghi, restò in piedi ed ascoltò lieto la risonanza delle sue parole, mentre il lumicino sopra l’architrave della porta prese a lampeggiare per la fine della ricreazione e le grida e la calca cominciarono a premere nel corridoio davanti alla classe. Ti stai cacciando in un guaio, ammonì Schramm, ti guarderai intorno ancora una volta. Fare attenzione, ammonendo come sapeva quando qualcuno faceva un errore in più del solito per mancanza di attenzione: Ce ne sono già stati parecchi come te. Si espresse così e notò che Waidschmidt già divagava. Come se lui s’aspettasse ciò che sarebbe immediatamente seguito, pensò Schramm, come se conoscesse già ogni frase, e lui, Schramm, anche lui le conosceva: Chi troppo vuole non vuole nulla, sa già nel proprio più profondo intimo che non lo otterrà, il sogno svanisce più rapidamente di quanto si possa pensare. Pensaci su. Waidschmidt sgranchì la nuca, il mento sul petto. Ragione perduta o uccisa, disse, o entrambe le cose, prima perduta poi uccisa.

E a nessuno era scivolata via la mano. Nulla, come dovette pensare nuovamente Schramm, era accaduto per caso, Waidschmidt aveva mosso tutto fino a quel punto secondo un piano e con intenzione. Ogni esternazione era una mossa che provocava di rimbalzo una prevedibile replica ed alla mossa successiva ancora una. E perfino il cosiddetto tracollo, pensò Schramm, era previsto e pianificato come la conseguenza necessariamente seguente dal pregresso. Fino alla fine, pensò Schramm, ti ha superato, anche quando Waidschmidt con lui guardò la sua mano, la mano di Schramm sollevata per colpire, congelata dal fremito. Ora Lei ha sollevato il braccio. Waidschmidt rise.

A quel punto lui avrebbe ricevuto finalmente ciò che meritava, e non solo lo meritava, pensò Schramm, ne aveva bisogno assolutamente. Diventare per una volta attonito, per una volta atterrito. Cogliere lo spavento nel quale ognuno appare nudo e stupido, quando vengono meno i modi di dire, quando per una volta si viene afferrati e qualcuno stringe, stringe più forte che può. Sollevato il braccio ora picchia anche, pensò Schramm, era questo il punto in cui voleva arrivare con le sue allusioni, con le sue osservazioni, era questo ciò che tutti loro in verità volevano e desideravano, che uno arrivasse all’altro e il loro agire non rimanesse senza conseguenze. Il ragazzo lo guardò senza ammiccamenti, solo il tremolio del ciglio destro, un poco più pensile, soprattutto ardore, strapazzata ogni paura, davanti ad ogni rapimento, al punto che alla fine qualcosa accadde.

 Qui non c’è nulla da guardare, disse Schramm ed afferrò la presa dello strumento con entrambe le mani. Poteva ancora accadere che lui li minacciasse, se loro avessero fatto pressione alla sua porta troppo a lungo e troppo vicini con il loro gioco, avessero pressato le fronti sulle aste, se avessero spiato verso di lui nell’affossamento, nel giardino antistante. Lui mostrò la zappa, mostrò una pietra, come ci si aspetta da uno che naturalmente diventa sempre più strampalato, senza moglie, senza figli, e senza neppure un cane. Ma per questo era ancora troppo presto.

 

 

 

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